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8 marzo Rachel Goldberg-Polin (Famiglie ostaggi Israele): “Le lacrime sono tutte uguali, non c’è competizione nel dolore”

Rachel Goldberg-Polin, madre di Hersh, rapito e ucciso da Hamas, ha incontrato leader mondiali e Papa Francesco per salvare il figlio. Inserita dal "Time" tra le 100 persone più influenti, continua a lottare per la liberazione degli ostaggi, ricordando che "le lacrime sono tutte uguali"

Intervista al SIR- Daniele Rocchi - 8 Marzo

Hostages families with  Pope Francis

Ha girato il mondo per parlare con i leader della terra, come Joe Biden e Papa Francesco, è stata premiata dal Time che l’ha inserita nella lista annuale delle 100 persone più influenti del pianeta, ha tenuto un discorso alle Nazioni Unite a Ginevra, ha rilasciato interviste alle maggiori testate mondiali partecipato a tante iniziative per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla liberazione degli ostaggi israeliani nelle mani di Hamas, tra i quali suo figlio Hersh, israelo-americano di 23 anni, rapito il 7 ottobre 2023 mentre si trovava al Nova Music Festival, a Reim.

 

Rachel Goldberg-Polin ha fatto l’impossibile per salvare Hersh. Ma il suo corpo martoriato è stato ritrovato a Gaza, in un tunnel nei pressi di Rafah, lo scorso 31 agosto. “Bring them home”, riportiamoli a casa, è lo slogan del Forum per le famiglie degli ostaggi: nonostante la tragica perdita, Rachel continua a portare avanti, con il Forum, la sua missione per la liberazione degli ostaggi con la consapevolezza, spiega, che “le lacrime sono tutte uguali. Non c’è competizione nel dolore, tutti gli esseri umani provano dolore. La cosa pericolosa e lacerante è credere che ci sia una competizione fra questi due dolori. Non esiste competizione tra la sofferenza dei civili che vivono a Gaza e quella di coloro che sono stati trascinati dentro Gaza”. Rachel vive a Gerusalemme, insieme a suo marito Jonathan e alle due figlie. Oggi, 8 marzo, Rachel parla al Sir come madre, moglie, insegnante e donna e le sue parole sono una potente testimonianza di pace.

Cosa significa ‘essere madre’ in un tempo di guerra?
Credo sia molto complesso e doloroso essere madre in tempi di guerra perché, sforzandoci, possiamo percepire la sofferenza di ogni madre. È una sfida ardua ma penso che una delle parti più straordinarie dell’intelletto, con cui Dio ci ha benedetti, sia proprio la capacità di provare empatia per gli altri. A riguardo, come madre ho riflettuto molto in questo periodo di grande sofferenza iniziato il 7 ottobre.

Penso a tutte le madri qui in Israele che hanno perso i loro figli a causa della violenza, a quelle i cui figli combattono per proteggere le persone e a quelle che si trovano tra le centinaia di migliaia di civili innocenti a Gaza, siano essi bambini o genitori.

Siamo tutti immersi in un profondo abisso di sofferenza e spero che, nonostante il dolore, abbiamo ancora la capacità di ‘sentire’ la sofferenza altrui.

Suo figlio Hersh è stato rapito e ucciso da Hamas a Gaza. Come si può trasformare questo dolore in una missione di incontro e di riconoscimento della sofferenza degli altri, senza cadere in una spirale di odio e di vendetta?
Non credo sia stata tanto una decisione presa quanto qualcosa che è emerso naturalmente. Se ci facciamo guidare da principi di rettitudine e di moralità e, nel mio caso, se la mia visione del mondo è radicata nella mia fede, allora è quasi inevitabile riconoscere che esistono altre persone coinvolte. Dobbiamo trascendere il nostro dolore e capire come possiamo convivere, perché

abbiamo solo due possibilità: imparare a vivere insieme o morire insieme.

Queste sono le uniche opzioni, come dice la Bibbia, libro del Deuteronomio (30,19) quando Dio ci pone di fronte a una scelta: “io ti ho posto davanti la vita e la morte, la benedizione e la maledizione. Scegli dunque la vita, perché viva tu e la tua discendenza”. Questa frase mi risuona costantemente nella mente: dobbiamo scegliere la vita.

Esiste un’‘unità di misura’ per quantificare l’intensità di questo dolore?
Non esiste una competizione nel dolore. La sofferenza non si misura. Quando proviamo a farlo, alla fine perdiamo tutti. Ognuno di noi, nel corso della vita, si trova di fronte a eventi che non ha scelto. Dobbiamo riconoscere che ogni persona porta con sé una sofferenza e che questa non è una gara.

Le lacrime sono tutte uguali.

Accettare e convivere con questa sofferenza è un cammino di guarigione? Cosa direbbe alle famiglie che stanno vivendo un’esperienza simile alla sua?
Il processo di guarigione non è lineare. Ci sono giorni in cui il dolore è insopportabile e sembra che non ci sia alcun progresso in questo cammino di ricostruzione interiore. Ma è normale. È importante sapere che è normale. Il percorso della guarigione è tortuoso e, a volte, sembra andare indietro prima di andare avanti. Dobbiamo essere pazienti con noi stessi.

Per me, come persona di fede, immergermi ancora di più nella mia spiritualità mi ha dato grande sostegno. Ma so che non vale per tutti. Non riesco ad immaginare quanto possa essere ancora più difficile per chi non ha una fede. Questo dolore è immenso, sovrastante, totalizzante. E io ringrazio Dio per il fatto di credere in Lui.

Da madre: in un contesto come quello che sta vivendo, quanto è importante educare i bambini a vedere l’altro non come un nemico ma come un amico?
Siamo sommersi da messaggi e voci che ci dicono che dobbiamo essere avversari, nemici, che dobbiamo pensare in termini di “noi contro loro”. Riceviamo questi messaggi fin da piccoli e finiamo per credere a questa costruzione della realtà. Non credo che tutto questo ci abbia aiutato come esseri umani. Credo che ci sia ancora lo spazio per dire che non siamo uguali, ma possiamo rispettarci. Io posso vivere la mia vita, tu puoi vivere la tua, e possiamo farlo senza ostilità. La pace, l’utopia, la redenzione, la salvezza sono aspirazioni alle quali possiamo tendere. Ma possiamo anche essere pragmatici, realistici e dire: oggi, adesso, proviamo a ridurre la sofferenza, il dolore, la violenza, l’ostilità. Penso che molte persone si sentano scoraggiate perché pensano che la pace sia un obiettivo irraggiungibile, qualcosa di troppo lontano. Ma invece di dire che non avremo mai la pace, chiediamoci: “Possiamo ridurre un po’ il dolore? Possiamo diminuire la rabbia? Possiamo attenuare l’odio?”. Sono passi più piccoli, ma realizzabili. E credo che perdiamo grandi opportunità quando non proviamo nemmeno a percorrere questa strada.

Il 22 novembre 2023, con i familiari di altri ostaggi, ha incontrato Papa Francesco che ha ricordato che israeliani e palestinesi “soffrono tanto ambedue: le guerre fanno questo, ma qui siamo andati oltre le guerre, questo non è guerreggiare, questo è terrorismo”. Sono continui gli appelli del pontefice per la pace e i suoi inviti a restare umani. Ma come si può restare umani e salvare la nostra umanità?
È una domanda profonda e potente. Credo che il primo passo sia guardare l’altro e chiedersi cosa che abbiamo in comune invece di cercare subito chissà quante differenze. Quando il Santo Padre ha detto quelle parole, per me sono state di enorme valore e conforto. Le porto sempre con me. E cerco, anche se è difficile, di metterle in pratica. È difficile, quando si è nel pieno del dolore, quando si è in lutto, quando la perdita è ancora una ferita aperta. E il trauma che il popolo ebraico e lo Stato di Israele, e non solo il popolo ebraico, hanno vissuto il 7 ottobre non è ancora finito. Ci sono ancora 59 persone, di tutte le fedi – ebrei, cristiani, musulmani, indù, buddhisti – che sono prigioniere. Quando si è dentro questa sofferenza, è difficile restare razionali. Ma credo che

la nostra unica speranza è cercare di capire cosa abbiamo in comune con chi ci sta di fronte.

E quello che sentiamo tutti, indistintamente, è il dolore. E se lo riusciamo a capire, forse possiamo trovare un modo per alleviare il nostro dolore e anche quello degli altri.